Nel grande scantinato della memoria giacciono storie trascurate, oscurate o semplicemente dimenticate. Una di queste è la storia del ciclismo femminile in Italia. A svelarla, dopo 3 anni di interviste, ricerche e letture di ritagli di giornali, arriva, a fine febbraio in libreria, il volume di Ediciclo Donne in bicicletta. Una finestra sulla storia del ciclismo femminile in Italia,della storica dello sport Antonella Stelitano. Un volume di 470 pagine in cui viene anche raccontata la genesi del blog Ladra di biciclette.
Trevigiana classe 1964, paladina del diritto allo sport, autrice di una tesi sul Comitato Olimpico Internazionale e sullo sport, giocatrice di pallavolo e già dirigente CONI e Federvolley, è membro della Società Italiana di Storia dello Sport e del Comitato Italiano Fair Play. Nel novembre del 2019 ha ricevuto la stella di bronzo al merito sportivo.
La genesi del volume Donne in bicicletta
Tre anni fa, l’organizzazione di un convegno, a Treviso, su Donne e sport, in cui Ivano Corbanese, dirigente di Federciclismo Veneto, le fa notare di non aver invitato alcuna ciclista italiana, fa scoccare la scintilla. Perché non colmare questa lacuna? Perché non scrivere un libro sulle cicliste dimenticate? In fin dei conti, pur zitta e discreta, la bicicletta è sempre stata nella vita di Antonella. Oltre alla Graziella regalata, a 5 anni, dalla nonna, oltre alla bicicletta che usa adesso in città, era ancora viva la memoria del cugino Ennio Salvador, gregario di Francesco Moser, di cui andava a seguire le tappe, quando il Giro passava dal Veneto.
“Mara Mosole è la prima ciclista che ho incontrato. È lei che mi ha dato i primi numeri di telefono. È da qui che è cominciata una chiacchierata durata 3 anni con le cicliste che correvano negli anni ‘60 e nei decenni successivi”. Un filone che, nelle ricerche, procedeva di pari passo con quello della storia della rapporto tra donne e bicicletta: “nei discorsi delle donne con cui ho parlato”, afferma Antonella, “il ciclismo emergeva non solo come un fatto sportivo, ma come una sfida sociale e personale in cui entrare totalmente”.
Sulla storia della donna in bicicletta leggi anche, su questo blog, Piccola storia della bicicletta, 90 grammi di femminilità: storia della gonna in bicicletta e La storia sociale della bicicletta: pop, moderna e poco femmina.

Le donne che in quegli anni si guadagnarono il diritto di correre su pista o su strada trovarono il modo, attraverso la bicicletta, di sentirsi libere su più piani. Non è un caso, sottolinea la Stelitano, se “una donna eccezionale come Marie Curie compie il suo viaggio di nozze in bicicletta; se Emma Strada, la prima donna a laurearsi (in ingegneria) al Politecnico di Torino nel 1908 andava in bicicletta e così per Ernestina Prola, la prima, sempre a Torino, a prendere la patente di guida nel 1907”.
Le prime gare di ciclismo femminile
La prima gara di ciclismo in cui appaiono le donne si svolge tra Parigi e Rouen nel 1869. In Italia, bisogna attendere il 1898, a Firenze, per avere notizia delle prime gare in pista. In quella occasione, “le cicliste erano più che sportive: metà acrobate, metà soubrette, vestite con abiti aderenti e scollati, con le ginocchia scoperte”. Erano più che altro un’attrazione. Qualche anno prima, la Gazzetta di Venezia del 1° gennaio, avrebbe scritto:
Le signore andranno in tandem ma voi, mariti gelosi, guardatevi da queste ruote di metallo: il velocipedismo è un’invenzione infernale che in un attimo pone una grande distanza tra il marito e la moglie come il pattinaggio, altro genere di sport, non è che la legalizzazione dell’abbracciamento. E poi col tandem è facile cadere, e son cadute pericolose quelle, perché la donna torna in piedi sì, ma molto spesso casca, come suol dirsi, dalla padella nella brace, anzi nelle braccia.
La bici Bianchi della Regina dagli occhi celesti
Nel 1902, è il desiderio della Regina Margherita di imparare ad andare in bicicletta a occupare la cronaca. Leggo nel libro della Stelitano, tratto dalla Gazzetta ciclistica dell’11 dicembre 1895: “In Italia, la regina Margherita era solita fare lunghe pedalate nel parco di Monza. Ne è cosi entusiasta che nel 1902 fu la prima componente di casa Savoia a iscriversi al Touring Club Ciclistico Italiano. Per lei, il fabbricante Edoardo Bianchi aveva realizzato una bicicletta speciale, consona a una regina, dotata di copricatena in cristallo e di manopole di avorio”. Comprese nella fornitura furono anche 12 lezioni private da parte di Bianchi in persona, che misero in grado la Regina di pedalare “allegramente e con perfetta disinvoltura”. Pare, ma la notizia non è confermata, che il celeste tipico delle biciclette Bianchi fu ispirato a Edoardo proprio dal colore degli occhi della Regina (più probabilmente nacque da una fornitura di vernice militare in eccesso, una tonalità ottenuta mescolando azzurro e grigio chiaro).

Alfonsina Strada e Olivia Grande
Nel 1910 si trova traccia del primo campionato per signorine cicliste, iscritte spesso sotto falso nome. Nel 1924, come scrivo nell’articolo di questo blog Il mito di Alfonsina Strada nel fotoprogetto di un’artista olandese, la verace sartina emiliana Alfonsina Morini sposata Strada riesce a farsi ammettere, unica donna, al Giro d’Italia che porta a termine, pur squalificata, piena di ferite, fango e sporcizia. Un fatto non concesso alle atlete Maria Milano, Maria Costa, Vittoria Bertoni. In quegli anni, mentre il Fascismo favoriva la pratica della ginnastica femminile per migliorare la razza e far nascere prole sana e forte, Olivia Grande, nel 1937, ad appena 20 anni, fa il record italiano dell’ora. Tre anni dopo, un’ordinanza del 28 agosto del Prefetto di Udine recita:
Constatato che si vedono transitare in provincia, soprattutto in bicicletta, giovani donne in tenuta troppo libera e succinta e perciò contrastante con la decenza e la pubblica moralità, (l’ordinanza) ordina che sia vietato circolare o comunque mostrarsi in pubblico, in costume da bagno, in mutandine o in calzoncini troppo corti, pena l’arresto fino a tre mesi e un’ammenda di lire 2.000.
La bicicletta della Resistenza Partigiana
In questo clima repressivo, è la Resistenza Partigiana in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia, con la sue necessità di staffette segrete, a sdoganare finalmente la bicicletta da oggetto vizioso a strumento di conquista di fiducia e stima. La II Guerra, secondo una delle ultime partigiane ancora in vita, l’ultranovantenne Francesca Meneghin di Vittorio Veneto, sarebbe durata di più senza le donne in bicicletta.
Irrompe Bellezza in bicicletta
Con la fine della II Guerra, la donna ciclista diventa una Bellezza in bicicletta (nel video sopra), con “le gambe snelle, tornite belle… con i capelli al vento, col cuor contento e il sorriso incantator”. È questo il momento in cui la Uisp organizza, dal ’49 al ’52, i primi campionati femminili su pista e su strada. Nel ’58 nascono i Mondiali di ciclismo, ma l’Italia li ignora perché non ha una squadra di cicliste da presentare. Nel ’62, l’Unione Velocipedistica Italiana, poi Federciclismo, permette il tesseramento alle donne. Si può così creare una squadra femminile per i Mondiali di quello stesso anno, svolti tra Milano e Salò.
Dalle Dolomiti arriva la stella di Maria Canins
Questa prima fase pionieristica dura fino al sorgere dell’astro di Maria Canins, la ciclista altoatesina che nel 1985, sdoganando l’idea che la donna sia il sesso debole dello sport, vince il Tour de France. Un anno prima, nel 1984, il ciclismo femminile aveva fatto il suo esordio alle Olimpiadi di Los Angeles. Seguono anni importanti: nel ’97, Alessandra Cappellotto (qui interpellata nell’articolo Vogliamo essere donne e cicliste, non belle statuine o miss) vince il Mondiale su strada, Fabiana Luperini guadagna la maglia gialla del Tour de France e quella del Giro Rosa, mentre Antonella Belluti è prima nella classifica di Coppa del Mondo nelle tre specialità su pista e Paola Pezzo vince la Coppa in mtb. Un boom che non si è più ripetuto.

Dopo le bucce di banana, la grande amicizia
Un successo cui Antonella Stelitano è arrivata tessendo il filo sottile delle relazioni con le donne cicliste allo stesso tempo incredule e felici di essere state scoperte dalla narrazione dello sport. Della gestazione del libro, “la cosa più bella, il fatto che più mi ripaga è l’essermi sentita adottata e accolta nelle case delle cicliste. Il mio libro non ha la presunzione di raccontare la storia completa del ciclismo femminile, ma la passione di donne cui il mondo ha messo bucce di banane sotto le ruote, per farle cadere, gettato sassi e alcool durante le gare”. Per la storica dello Sport al suo 7° libro, è stato come fare una caccia al tesoro: andare alla ricerca della cronaca sui giornali e non dei libri già scritti da altri. Scrivendo Donne in bicicletta “mi sono fatta tante amiche”. Io la capisco. La bicicletta, lo so da quando scrivo questo blog, è un potentissimo e gentile collante.