Non aveva alcuna intenzione di fermarsi alle Seychelles l’instancabile Henry Morton Stanley quando da Zanzibar capitò in quella manciata di isole nel Tropico del Capricorno. Era il marzo 1872. Con in mano uno scoop senza precedenti (il cui titolo era “Doctor Livingstone, I suppose”), il reporter del New York Herald si accingeva a rientrare, esausto dei quattro mesi trascorsi sul lago Tanganica alla ricerca del grande esploratore scozzese David Livingstone. Arrivato a Mahé, la più grande delle Seychelles, con l’intenzione di imbarcarsi su una nave che faceva rotta tra la Cina e Marsiglia, scoprì che il battello era partito da oltre dodici ore. Non gli restava che rassegnarsi: si abbandonò quindi a un riposo forzato, affittò una casa nell’altura che dominava Victoria, la piccola capitale, e si fermò per un mese nelle “isole delle spezie” fino a che poté riprendere il mare.
Seychelles: uno dei migliori viaggi da fare in inverno
Molto è cambiato in quella casa sul Chemin St. Louis da cui Stanley pretendeva di aver visto, prima che il sole scomparisse nella Baia di Beau Vallon, il famoso raggio verde. Madame Kathleen Fonseka, la proprietaria della casa, l’ha trasformata nel migliore ristorante di cucina creola dell’arcipelago, il Marie-Antoinette. Non fosse per i tavoli di bambù con la tovaglia bianca e rossa, quei bicchieri color arancio, i cuscini variopinti sulle sedie e quel buffet creolo (il pesce marinato nel latte di cocco, l’insalata di cuori di palma), la casa avrebbe ancora quel sapore coloniale che fece dimenticare a Stanley, almeno per trenta giorni, l’inferno dell’Africa equatoriale. Le torrette rosse e il tetto spiovente che consente alle piogge monsoniche di scivolare via sono di morbida lamiera di latta; le pareti verdi e le persiane bianche ancora di legno takamaka, una sorta di profumato alloro locale.
La geografia, lo stile di vita e i toponimi delle 115 isole delle Seychelles
All’epoca in cui Stanley capitò alle Seychelles, arcipelago di 115 isole tra l’Equatore e il decimo parallelo sud, Mahé non andava à la plage: nessuno, non un pescatore- sapeva nuotare. Le spiagge di Anse Intendance, Anse Takamaka, sul versante occidentale, erano territorio delle tartarughe di mare e la barriera corallina respirava ancora intatta. A quel tempo i promontori, le piane e i profili dei rilievi all’interno dell’isola avevano già preso i nomi di Sans Souci, Chemin Montagne Posée, Roche Gratte Fesse, Cap Malheureux, Monte Cachée, evocativi di quella geografia della nostalgia che ha ispirato il sudafricano Wilbur Smith nel suo enclave paradisiaco dell’Ile au Cerf, nel Sainte Anne Marine National Park, quando scriveva di arrembaggi, tempeste e di pirati dal cuore tenero.
Si scavava, infatti, allora, nelle anse dell’isola alla ricerca dei tesori di indimenticabili pirati. E la vita di Mahé ruotava intorno alla produzione di olio di copra, la polpa del cocco essiccato, buono per cucinare, per detergere e per lucidare le chiome delle signore. La corteccia di cannella, arrivata da Sri Lanka un secolo prima con un tale Monsieur Pierre Poivre, intendente dell’isola di Mauritius, veniva fatta seccare in forni rudimentali detti calorifère. Stoccata in sacchi di juta era poi venduta a peso a chi ne utilizzava l’aroma in cucina e nell’industria dei profumi.
Il corrispettivo più armonico dell’art de vivre insulare, almeno nelle isole di origine granitica e più sviluppate, Mahé, Praslin e La Digue, fu l’architettura: furono quelle dimore coloniali o plantation house immerse in una piantagione di cocco, più raramente di cotone e di canna da zucchero, che riassumono in sé l’adattamento al particolare clima dei tropici. Le case come Plaine St. André e il Kreol Istitute su Anse aux Pins a Mahé, venivano costruite in funzione dei venti, della pioggia, della calura e della luce, con i pannelli decorativi in legno di chiara influenza indiana e la veranda che fungeva da luogo di passaggio e di collegamento tra le stanze.
In questo spazio-cuscinetto tra l’intimità familiare e la vegetazione esterna ci si accomodava su comode poltrone di canna e la limonata, spremuta di fresco, si prendeva a mezzogiorno, prima di pranzo. Il rhum preparé, diluito con acqua e invecchiato con buccia d’arancia e vaniglia era riservato ai gentiluomini, dopo cena, servito in minuscoli bicchierini di Baccarat. Così, sulla veranda, si attingeva frescura, quella che anche Stanley, dopo l’Africa equatoriale, aveva, nonostante l’impazienza di ripartire, apprezzato. E si aspettava la notte, momento in cui le donne smettevano le crinoline e si infilavano in letti avvolti da zanzariere.
Le prime case creole, come quelle che sopravvivono nell’isola di La Digue erano semplici parallelepipedi di legno con il cappello di paglia, anzi di foglie di palma. Cammini per la stradina principale che da La Passe, dal piccolo molo d’attracco per le barche, conduce fino alla grande piantagione di Union Estate, sul versante orientale, ed è tutta un’infilata di case gialle, bianche, rosse: i tetti alti per consentire maggiore ventilazione, la piccola veranda, le lamiera di latta come tetto, il vano cucina nel retro, sempre separato per timore degli incendi.
In questa versione variopinta e asimmetrica delle grandi dimore i cortili profumavano di legna da ardere, di ylang-ylang, di cumino e di eugenia aromatica i cui fiori altro non sono che i pungenti fiori di garofano. Affusolati baccelli di vaniglia vengono ancora coltivati nella Union Estate, la proprietà-parco a ridosso di Anse Source d’Argent. La grande casa coloniale con il tetto impagliato, al centro della piantagione, ha fatto da set a scene del film Emanuelle.
A pochi passi, Anse Source d’Argent è la spettacolare quintessenza della spiaggia seychellese: la sua sabbia bianca stringe in un morbido assedio le radici profonde del takamaka, del mandorlo indiano, della palma a ventaglio e dell’uva “casuarina”. Le mangrovie crescono lì dove l’acqua salata incontra l’acqua dolce delle sorgenti e gli speroni di granito grigio-rosa disegnano un paesaggio surreale in cui la roccia emerge, come un cristallo incastonato, da acque dai riflessi blu, azzurri, altrove ancora verdi.
Poche le abitazioni tipiche rimaste a Praslin, tante le attività legate alla noce del coco-de-mer, quel frutto di palma endemica sagomato come un bacino di donna: visto galleggiare nell’oceano dai primi francesi, fu chiamato appunto cocco di mare. Non valeva nulla all’epoca di Stanley il coco-de-mer: spaccato in due fungeva da ciotola o recipiente; la polpa veniva essiccata e lavorata come se fosse avorio per abbellire con modesti gioielli il seno e il polso delle creole. Nel delicato ecosistema della Vallé de Mai, unico lembo di foresta di palme di coco-de-mer che le Seychelles conservino (Riserva Naturale dal 1966 e, dal 1983 nel World Natural List dell’UNESCO), si raccolgono adesso un centinaio di noci al mese, vendute poi nei negozi di souvenir di Praslin come di Mahé.
Dicono che chi ingerisce un pezzetto di polpa di coco-de-mer può fare l’amore per tutta una notte. Anche che, chi mangia i frutti dell’albero del pane tornerà sicuramente. E non è difficile crederci, specie per quest’ultima affermazione. Ci saranno sempre isole su cui tornare alle Seychelles. Esistono isole vicine o Interne e isole cosiddette Eloignées, lontane, gettate a grande distanza nell’Oceano Indiano sotto forma di scogli granitici, atolli, banchi corallini. La storica assenza dell’uomo è palpabile negli atolli di Aldabra, Farquhar, St. Joseph e Poivre.
L’art de vivre nella veranda si fa rarefatta, anzi, scompare del tutto nelle isole di Assumption, Marie Louise, Astove e Cosmoledo non sfiorate dai piani di sviluppo turistico. E’ terminato anche l’isolamento di quelle isole che, nel passato, erano state acquistate dai privati: D’Arros di proprietà del principe Pahlevi, nipote dello Scià; Cousine dal sudafricano Fred Keeley che la pagò 5 milioni di dollari americani. Stop. Le Seychelles più lontane non sono più in vendita. Sono care, non c’è dubbio, e difficili da raggiungere. Su alcune è sorto un piccolo resort con appena venti-trenta bungalow. Dalla loro veranda, dicono, si può ancora pretendere di vedere il sottile e impalpabile raggio verde di un tramonto nell’Oceano Indiano.