“In un’Amsterdam in cui la bicicletta è talmente integrata nella vita della città da non poter essere né vietata né incoraggiata, la risposta al cosiddetto blocco intelligente imposto dal Coronavirus, è stato un aumento degli spostamenti a piedi e a pedali”. A parlarmi è lo spagnolo 25enne Samuel Nello, ricercatore dell’Urban Cycling Institute dell’Università di Amsterdam, di stanza nel paese delle biciclette da 4 anni. È lui a raccontarmi che “l’arteria di 5 km che cinge a ferro di cavallo i Canali Storici di Amsterdam è stata convertita in Fietsstraat o strada delle biciclette dove i pedoni e i ciclisti hanno la priorità rispetto ai veicoli a motore” ritenuti in qualche modo ospiti.
Il primo esperimento di strada a priorità ciclistica realizzato nei Paesi Bassi nella cittadina di Oss, nel 2004, aveva prodotto un aumento del traffico ciclistico dell’11% e una riduzione di quello motorizzato del 30%. Su queste strade, in controtendenza a quanto si sta producendo a Milano, Berlino, Bogotà e Parigi, città dove la Fase 2 del lockdown dovrebbe generare una fioritura di corsie ciclabili di emergenza o pop-up, “le fasce sul manto stradale indicanti le corsie ciclabili”, rivela Samuel, “stanno scomparendo. Si torna a riabbracciare il concetto di spazio condiviso, ma in sicurezza e con precedenza data alle biciclette”. Un’idea, per un paese come il nostro, ancora rivoluzionaria.

Piste e corsie ciclabili o strade a precedenza ciclistica?
In paesi come l’Olanda e la Danimarca, ci sono precisi criteri basati sui volumi di traffico e la velocità per stabilire se le biciclette vanno separate, con corsie o piste ciclabili, dal traffico motorizzato. Leggo nel Safer Cycling Advocate Program Best Practice Guide della European Cyclists’ Federation (gennaio 2020) che quando il divario tra il limite di velocità imposto alle auto è troppo ampio rispetto alla velocità media delle biciclette, la separazione tra i due tipi di veicoli è necessaria.
Su strade minori e secondarie, sia cittadine sia extraurbane, dove la velocità di biciclette e veicoli a motore è assimilabile, si tende ad applicare il concetto dello spazio condiviso. In certi casi, i volumi di traffico e la velocità non giustificano il costo dell’infrastruttura ciclabile, ritenuta necessaria quando la velocità dei veicoli a motore supera i 50 km/h.
Lo spazio condiviso
Il concetto dello spazio condiviso prevede l’eliminazione di qualsiasi forma di demarcazione (cordoli, segnaletica su manto stradale, marciapiedi, semafori) tra auto, ciclisti e pedoni. Il tema in questo caso è l’integrazione tra le forme di mobilità e una rivalutazione dello spazio urbano inteso come vitale e sociale, non semplicemente di scorrimento, mediante l’inserimento di panchine e fioriere. L’idea, in un paese che ha fondato la sua identità sulla tolleranza, come l’Olanda, è che l’assenza di regole e un’organizzazione spaziale funzionale possa portare spontaneamente a un uso più sicuro della strada da parte di tutti gli utenti. Un tema per certi versi controverso, vista la dominanza dei “più forti”, gli automobilisti.
In Europa, più del 30% degli spostamenti di meno di 3 km (50% per tragitti di meno di 5 km) vengono effettuati in auto. Il 73% degli europei crede che il ciclista debba muoversi in spazi preferenziali. Insieme all’inquinamento, la mancanza di sicurezza è una delle barriere all’aumento della quota degli spostamenti modali in bicicletta. Nei tempi che seguono l’emergenza Coronavirus, nei paesi dove la ciclabilità è meno matura, lo spazio condiviso e le strade a priorità ciclistica sembrano ancora fantascienza. Adesso che ben vengano, e rapidamente, le ciclabili pop up.