Si mettono le mutande in bicicletta sotto il pantaloncino da ciclismo? Perché non indossare delle mutande rosse per andare in bicicletta a Capodanno? Una giarrettiera rossa sui pantaloni da ciclismo porterebbe altrettanta fortuna? Futile quanto utile, la domanda serpeggia in una chat di donne cicliste, spiritose e scaramantiche. E affronta un argomento, si mettono o no le mutande per andare in bicicletta da corsa, in cui s’intrufolano volentieri gli uomini. L’assunto generale, sbandierato dagli uomini (cui consiglio vivamente di verificare che i pantaloncini da ciclismo indossati senza mutande siano almeno non lisi o trasparenti), è che gli slip in bicicletta non si mettono perché, al contatto con il pantaloncino e con la sella, provocherebbero rossore e irritazione. Una posizione sostenuta anche dai ciclisti che hanno smisurata fiducia nelle supposte proprietà batteriostatiche dei fondelli da bici che riducono le vibrazioni e l’eccessiva pressione sulla sella.
Donne in bicicletta senza mutande, un tema controverso
Da donna ciclista, consapevole dei problemi di cistite e infiammazione che la bici contribuisce a far insorgere, fiduciosa del fatto che i fondelli ben fabbricati impediscano la proliferazione di batteri ma non di tutti, avendo scoperto che l’ammorbidente nei lavaggi o l’uso eccessivo delle creme grasse tra gambe e inguine può abbassare notevolmente l’efficacia battericida dei fondelli, prendo le distanze dalle affermazioni dogmatiche e affermo: io in bicicletta senza mutande vado solo se conosco l’efficacia batteriostatica del fondello. Oppure indosso delle mutande con cuciture minime e piatte.
Senza mutande: attenzione al colore rosso
Sul rosso devo ancora sciogliere il dubbio: questo, ho appreso, è uno dei colori che tendono a rilasciare particelle di tintura sulla pelle specie in condizioni di sudore e calore. Ma è anche il colore della buona energia, della determinazione, della passione, dell’ottimismo, del coraggio e della motivazione. Il colore da mettere a Capodanno.
Breve storia delle mutande
Delle mutande, dal latino mutandae vestes, le vesti che vanno cambiate, si parla poco o niente. L’argomento non è glamour, anche se sexy. L’inglese le liquida con il termine underwear, ciò che si indossa sotto, ciò che non si nomina. Le mutande reclamano il silenzio. E così è stato per secoli. L’uso delle mutandine femminili su larga scala è relativamente recente, diffusosi dopo il 1850, di pertinenza, prima di allora, solo di donne di spettacolo, cavallerizze e prostitute.
Nel trattato francese L’art de la lingère di Gersalt, del 1805, non sono mai citate. Da allora, dovette trascorrere mezzo secolo perché, importato dall’Inghilterra e dall’Olanda come protezione dal freddo, il capo arrivasse in Francia sotto forma di mutandoni alla caviglia ornati di pizzo e volant. Queste lunghe braghe tubolari dovevano essere tenute accuratamente nascoste. Aperte sul davanti, erano tenute insieme da una cintura regolabile.
Mutande: da lunghe e tubolari diventano invisibili
Per le donne, le prime mutande nere compaiono negli anni 1920, sempre a palloncino e al ginocchio. Si faranno di dimensioni ridotte solo negli anni 1940-1960. Per tornare in bella vista in questi anni con colori, forme e materiali inaspettati, pratici e tecnici allo stesso tempo, come se ciò che è sano fosse diventato il nuovo sexy. Come per il reggiseno, che nasce negli anni 1910 come alternativa al corsetto, le mutande da donna del terzo millennio sono morbide, tagliate al laser e con cuciture invisibili. Perché non dovrebbero essere usate in bicicletta, tolte invece in più opportune occasioni?
Si portavano le mutande con le prime biciclette?
La storia della bicicletta insegna che le donne cominciarono a pedalare su ciò che consentiva loro di mantenere la decenza. Cominciarono a montare in sella a tricicli dotati di ruota anteriore piccola e di grandi ruote posteriori. I velocipedi con la grande ruota anteriore introdotti a Parigi da Michaux erano impossibili da “cavalcare”: pesavano fino a 32 chili cui andava sommato il peso delle vesti delle donne, circa 7 chili.
Intorno al 1885, con l’invenzione della catena che trasmetteva alla ruota posteriore la forza impressa sui pedali, le ruote diventarono più piccole e fu più facile per le donne montare in sella. In quel momento le donne cominciarono a fare a meno di busti troppo stretti, corsetti, sottovesti e gonnelloni ingombranti che opponevano resistenza all’aria, s’impigliavano nei raggi e rendevano goffi i movimenti a favore di abiti più funzionali (in inglese, rational dress) lanciati nel mondo francese e anglosassone. Si trattava di pantaloni a sbuffo larghi fino al ginocchio e stretti al polpaccio, alla turca o alla zuava, accompagnati da soprabiti sufficientemente corti da non ostacolare la pedalata, abbastanza lunghi da non scoprire le gambe. Plissettati e ampi sui fianchi per non accentuare le forme, ristretti come legging sulle gambe per impedire colpi di vento indiscreti, queste culotte venivano indossate con mutandoni di flanella o di lana lavorata ai ferri. La loro declinazione attuale sono le mutande da donna con il fondello sottile lanciate dalla designer Christiana Guzman per le cicliste urbane (foto sotto).
A Capodanno, una giarrettiera rossa sul pantaloncino da ciclismo
I grandi cambiamenti di costume sono spesso opera delle donne quando emergono dal recinto, figurato o reale, in cui gli uomini le hanno per secoli confinate. Con la complicità della bicicletta e l’affermarsi di una moda più pratica, la donna comincia gradualmente a diventare il soggetto della propria esistenza. Oggi siamo libere, in Occidente, di andare e venire. Siamo libere di scegliere come vestirci. Di essere femminili o meno. Di pedalare senza mutande o con, a prescindere da quello che dicono gli uomini. E, se per propiziarci la fortuna dell’anno che viene, mettessimo una giarrettiera rossa sui pantaloncini? Ne ho trovate una serie di ogni misura in un vecchio cassetto a casa di mia zia, la “costumista” di famiglia che non butta mai niente. Adesso lo propongo sulla chat delle amiche cicliste…
